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Telefonate mute, Garante Privacy vara regole contro telemarketing invasivo

Squilla il telefono, il consumatore risponde, ma dall’altra parte non c’è nessuno. La pratica si ripete anche per una decina di volte e il risultato può essere percepito come una forma di stalking: è la telefonata muta, frutto di pratiche di telemarketing particolarmente aggressive contro cui il Garante Privacy ha varato in via definitiva un provvedimento generale che impone agli operatori di adottare misure specifiche per ridurre questo tipo di disturbo, una promozione telefonica particolarmente fastidiosa per gli utenti.

Il provvedimento è stato varato a conclusione di una consultazione pubblica avviata lo scorso anno. Come evidenzia l’Autorità, sono stati numerosi gli abbonati che hanno segnalato al Garante la ricezione di telefonate nelle quali, una volta risposto, non si viene messi in contatto con alcun interlocutore.Una pratica che, in alcuni casi, ha comportato il disturbo degli utenti anche  per 10-15 volte di seguito e che viene spesso vissuta addirittura come una forma di stalking, fino a configurarsi come un vero e proprio allarme sociale.

Cosa accade? La telefonata muta è frutto delle impostazioni dei sistemi centralizzati di chiamata dei call center, che vogliono massimizzare la produttività degli operatori. Spiega il Garante nell’odierna newsletter: “Per eliminare tempi morti tra una telefonata e l’altra, infatti, il sistema genera in automatico un numero di chiamate superiore agli operatori disponibili. Queste chiamate, una volta ottenuta risposta, possono essere mantenute in attesa silenziosa finché non si libera un operatore. Il risultato è appunto una “chiamata muta”, che può indurre comprensibili stati di ansia, paura e disagio nei destinatari”.

Il Garante ha dunque stabilito una serie di regole che le imprese di telemarketing dovranno rispettare, con sei mesi di tempo per mettersi in regola. Prima di tutto, i call center dovranno tenere precisa traccia delle “chiamate mute”che dovranno comunque essere interrotte trascorsi 3 secondi dalla risposta dell’utente. Non potranno verificarsi più di 3 telefonate “mute” ogni 100 andate “a buon fine”. L’utente inoltre non dovrà essere messo in attesa silenziosa: il sistema dovrà creare un rumore ambientale di fondo, ad esempio con voci di sottofondo, squilli di telefono, brusio, per dare la sensazione che la chiamata provenga da un call center e non da un eventuale molestatore.

Ancora: l’utente disturbato da una telefonata muta non potrà essere ricontattato per cinque giorni e, al contatto successivo, dovrà parlare un operatore. I call center dovranno infine conservare per almeno due anni i report statistici delle telefonate “mute” effettuate per ciascuna campagna, così da consentire eventuali controlli.

 

CGUE: divieto di imporre spese al pagatore anche per gestore di telefonia mobile

Gli Stati possono vietare ai beneficiari di un pagamento di imporre spese al pagatore qualunque sia lo strumento di pagamento scelto, e questo divieto si può applicare anche a un gestore di telefonia mobile. È quanto stabilito oggi dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea. La Corte è intervenuta su una questione riguardante l’addebitamento di spese aggiuntive che un fornitore di telefonia mobile in Austria faceva pagare ai consumatori che pagavano attraverso bonifico online o bollettino cartaceo.

Nel dettaglio, la sentenza scaturisce dal fatto che la T-Mobile Austria, fornitore di servizi di telefonia mobile in Austria, prevedeva nelle sue condizioni generali di contratto l’addebito ai suoi clienti delle spese di gestione in caso di pagamento mediante bonifico online o per mezzo di bollettino cartaceo. Venivano così addebitate spese aggiuntive mensili pari a tre euro ai consumatori abbonati alla tariffa «Call Europe» che avevano optato per tali modalità di pagamento, mentre questo non avveniva per chi pagava con addebito automatico sul conto bancario o sulla carta di credito.

Il “Verein für Konsumenteninformation”, un’associazione austriaca di consumatori, ha ritenuto che tale pratica fosse contraria alla legge austriaca sui servizi di pagamento, che vieta ai beneficiari del pagamento di imporre spese qualunque sia lo strumento scelto. La T-Mobile, invece, si opponeva perché riteneva che la legge, e la direttiva europea sui servizi di pagamento, non si applicasse a un gestore di telefonia mobile. I tribunali austriaci di primo e secondo grado hanno inibito alla T-Mobile di inserire la clausola nei nuovi contratti e di farne uso nei contratti esistenti, ma il caso è arrivato alla Corte di Cassazione che si è dunque rivolta alla Corte di giustizia, chiedendole di interpretare la direttiva europea.

Nella sentenza odierna la Corte rileva che la direttiva conferisce espressamente agli Stati membri la facoltà di vietare o di limitare il diritto del beneficiario di richiedere spese al pagatore per l’utilizzo di uno strumento di pagamento determinato. Tale facoltà si applica all’utilizzo di strumenti di pagamento nell’ambito del rapporto contrattuale instaurato tra un gestore di telefonia mobile (beneficiario del pagamento) e il suo cliente (pagatore). La Corte considera dunque che un gestore di telefonia mobile e il suo cliente possono, quando ricevono o effettuano un pagamento, essere qualificati rispettivamente come «beneficiario» e «pagatore».

La Corte considera dunque che “il potere degli Stati membri non si limita a vietare di applicare spese per l’utilizzo di uno strumento di pagamento determinato. Al contrario, essa consente altresì agli Stati membri di vietare in maniera generale ai beneficiari di imporre spese al pagatore qualunque sia lo strumento di pagamento scelto, a condizione che la normativa nazionale, nel suo complesso, tenga conto della necessità di incoraggiare la concorrenza e di promuovere l’uso di strumenti di pagamento efficaci”. Detto questo, gli Stati dispongono nondimeno di un ampio margine di discrezionalità nell’esercizio di tale facoltà e sarà la Corte di Cassazione austriaca a verificare se la legge austriaca rispetti tale condizione.

 

Toyota richiama oltre 6 milioni di auto (26 modelli) per problemi tecnici

Il richiamo di automobili che starebbe per fare Toyota Motor Corp è uno dei più grossi della storia automobilistica: la casa giapponese starebbe per richiamare 6,39 milioni di auto nel mondo coinvolgendo ben 26 diversi modelli, tra cui Yaris, Suv Rav4, Corolla oltre al Pontiac Vibe e Subaru Trezia. Alla base del richiamo ci sarebbero 5 diversi problemi tecnici, anche se non gravi, che riguardano lo sterzo, i sedili, e l’accensione. Alla diffusione della notizia, già ieri, il titolo Toyota ha perso il 3% sulla Borsa di Tokyo. I veicoli sono stati prodotti nell’ultimo decennio. Oltre 1 milione delle vetture coinvolte nel richiamo sarebbe stato venduto in Giappone, due milioni e mezzo negli Stati Uniti, 770 mila in Europa e le altre sono sparse nel mondo. La società dichiara di non essere a conoscenza di incidenti provocati dai difetti riscontrati.

Sempre Toyota, nel 2012, fece un altro mega richiamo di 7,4 milioni di auto, per potenziali rischi di incendio, mentre a febbraio scorso aveva richiamato 1,9 milioni di Prius. A marzo il gruppo automobilistico giapponese aveva accettato di pagare 1,2 miliardi di dollari per il settlement negli Usa dell’inchiesta penale relativa al noto caso dei difetti nel sistema di accelerazione.

 

Integratori alimentari, la guida di Federsalus per chi li acquista online

Negli ultimi 12 mesi 250mila italiani ha acquistato su Internet integratori alimentari (vitamine/multivitaminici, integratori a base di erbe, sali minerali e fermenti lattici): una percentuale pari al 2,5% dei 10 milioni di consumatori che nello stesso periodo ha acquistato integratori. E’ quanto emerge da una rilevazione Eurisko. In attesa di una normativa che regolamenti in Italia la vendita online, FederSalus, Associazione Nazionale Produttori Prodotti Salutistici, ha realizzato un decalogo per un acquisto sicuro sul web. 

Fare acquisti sul web è più comodo e a volte si risparmia, ma spesso si sottovalutano i potenziali rischi di un acquisto non garantito: sul web, infatti, si trovano prodotti provenienti da ogni parte del mondo, anche da Paesi con legislazioni diverse rispetto all’Italia e all’UE. Molti siti che vendono integratori alimentari, inoltre, sfuggono completamente ai controlli, con potenziali rischi per la salute visto che questi prodotti possono contenere sostanze e quantitativi diversi da quelli dichiarati, o addirittura sostanze dannose.

In Italia, la sicurezza degli integratori alimentari è garantita dalla normativa nazionale che regola ogni fase della produzione e commercializzazione: le sostanze ed i quantitativi in essi contenuti sono stabiliti nelle linee guida sugli integratori alimentari pubblicate dal Ministero della Salute. La produzione e il confezionamento degli integratori alimentari prodotti in Italia,  inoltre, deve avvenire esclusivamente in stabilimenti autorizzati e controllati dalle ASL.

In attesa di una normativa che regolamenti in Italia la vendita online, FederSalus ha realizzato un decalogo per l’acquisto sicuro sul web: basato sulla normativa nazionale e comunitaria, il decalogo spiega cosa sono gli integratori alimentari e il loro ruolo nel mantenimento del benessere nell’ambito di un sano stile di vita ed alimentare.

“Gli integratori in Italia sono acquistati soprattutto in farmacia, quindi sotto la supervisione di personale qualificato e, come rilevano recenti studi di settore, per un numero crescente di consumatori anche il medico ha fortunatamente un ruolo importante nella scelta dell’integratore. Il web ha assunto tuttavia un ruolo pervasivo come fonte di informazione anche in ambito di salute, e seppure ancora marginale, l’e-commerce di integratori è una realtà ancora poco regolamentata e poco controllabile di cui prendiamo atto – sostiene Marco Fiorani, Presidente di FederSalus – La nostra Associazione è da sempre impegnata a favore di un uso corretto e consapevole degli integratori nell’ambito di un sano stile di vita ed alimentare e la pubblicazione di un decalogo per l’acquisto online nasce dalla nostra volontà di fornire uno strumento al consumatore per orientarsi nella scelta dei siti Internet e dei prodotti che offrono le migliori garanzie”.

Ecco le 10 regole: 

1.       Verifica che gli ingredienti funzionali, cioè i componenti, siano ammessi dalle normative europee ed italiane consultando il sito del Ministero della Salute dove si trovano gli elenchi delle sostanze autorizzate e le relative indicazioni per la salute.

2.       Controlla i dosaggi corretti delle diverse sostanze presenti negli integratori. Sul sito del Ministero della Salute si trovano tutti i dosaggi giornalieri corretti di vitamine, minerali e di altre sostanze spesso utilizzate negli integratori alimentari.

3.       No alle sostanze dopanti. Gli integratori alimentari non possono contenere sostanze dopanti. Le sostanze dopanti, pericolose per la salute, possono modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo. Prima di acquistare un prodotto online è bene verificare se le sostanze che lo compongono siano presenti o meno nella lista pubblicata sul sito della Word Anti Doping Agency (WADA).

4.       Controlla l’etichetta: deve riportare i reali effetti fisiologici e/o nutrizionali. Attenzione in particolare ai prodotti per il controllo del peso che non possono promettere risultati eclatanti in un determinato arco di tempo e senza rinunce.

5.       Chiedi un consiglio al medico quando necessario, ad esempio se si stanno assumendo dei farmaci. Alcune sostanze utilizzate negli integratori potrebbero infatti interagire con i medicinali. E’ consigliabile inoltre chiedere un consulto medico prima di assumere contemporaneamente diversi integratori. Verifica con attenzione le eventuali avvertenze riportate in etichetta.

6.       Verifica che il prodotto sia nel registro nazionale del Ministero della Salute. In Italia è prevista dalla normativa vigente l’obbligatorietà della notifica del prodotto al Ministero della Salute. Per avere la certezza di acquistare un prodotto notificato in Italia (e quindi valutato dal Ministero della Salute) bisogna consultare il registro nazionale pubblicato sul sito del Ministero. In questo registro sono presenti tutti gli integratori che hanno concluso favorevolmente l’iter di notifica.

7.       Identifica l’azienda produttrice. Il registro nazionale degli integratori alimentari comprende anche l’elenco, in ordine alfabetico, delle aziende che hanno notificato i prodotti al Ministero della Salute italiano.

8.       Verifica l’identità del venditore. Prima di procedere con l’inserimento di dati sensibili (es. numero della carta di credito), verifica che siano presenti alcune informazioni riguardo, ad esempio, alle caratteristiche principali del prodotto, l’identità del venditore, l’indirizzo, il prezzo e le modalità di pagamento. E’ consigliabile verificare che, nel sito in cui si acquista il prodotto, figurino la sede legale dell’azienda, la partita iva, un eventuale numero verde e/o l’esistenza di un servizio post-vendita e di assistenza al consumatore.

9.       Informati sulle modalità di trasporto. Gli integratori alimentari devono essere trasportati in adeguate condizioni igienico sanitarie, entro appositi contenitori ed in condizioni adeguate di temperature e di stoccaggio per non comprometterne il consumo sicuro. E’ importante, quindi, verificare le modalità di trasporto e consegna dei prodotti.

10.   Non abbassare la guardia sugli effetti indesiderati. Anche per gli acquisti online è importante mantenere alta l’attenzione rispetto a possibili eventi indesiderati: i prodotti contenenti piante o altre sostanze naturali non devono indurre a far credere che solo per effetto di tale derivazione non vi sia il rischio di incorrere in effetti indesiderati. Segnala al tuo medico o al farmacista le eventuali reazioni avverse dovute a integratori acquistati sul web. Gli operatori provvederanno ad informare il sistema nazionale di fitovigilanza attraverso il modulo a disposizione sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità.

 

Commercio online di giochi ed elettronica: Antitrust sanziona GIMA

Antitrust in azione nei confronti delle pratiche scorrette attuate nel commercio online. Questa volta nel mirino dell’Autorità è finita la società GIMA S.r.l.s., attiva nella vendita online di giochi, videogiochi e prodotti informatici in genere, attraverso i siti web tecnomirage.it e esseashop.it, posti ora sotto sequestro preventivo dalla Guardia di Finanza. La società è stata multata per complessivi 100 mila euro.

Tre le pratiche contestate: la diffusione di informazioni non veritiere in merito alla disponibilità ed ai tempi di consegna dei prodotti offerti in vendita; l’opposizione di ostacoli all’esercizio di diritti contrattuali; la diffusione di informazioni non veritiere in merito ai contenuti e alle modalità di esercizio dei diritti contrattuali.

L’ingannevolezza delle informazioni diffuse dal professionista sulla disponibilità dei prodotti e sui tempi di consegna, spiega l’Antitrust, è dimostrata dalla mancata consegna nei termini pattuiti e comunque entro il termine di trenta giorni, secondo quanto previsto dal Codice del Consumo in materia di contratti a distanza. Un primo problema riguarda il limitato periodo di attività della società: “i domini utilizzati per individuare i siti web del professionista – spiega l’Antitrust nell’odierno bollettino – sono stati registrati, rispettivamente, il 9 maggio 2013 (tecnomirage.it) e il 30 luglio 2013 (esseashop.it), mentre GIMA S.r.l.s. è stata posta in liquidazione l’11 ottobre dello stesso anno, da ciò potendosi ragionevolmente desumere che l’attività si sia protratta per circa un semestre”. C’è inoltre un numero considerevole di segnalazioni su operazioni non andate a buon fine e, di fronte alle contestazioni mosse dai consumatori per la mancata consegna dei prodotti, la stessa società “ha più volte ammesso di non avere la materiale disponibilità del prodotto ordinato, ovvero ha indirettamente attestato tale situazione, proponendo la consegna di beni diversi da quelli ordinati. La condotta in questione appare poi tanto più censurabile, ove si consideri che alcuni segnalanti hanno riscontrato la perdurante presenza online dell’indicazione di disponibilità, pur successivamente alle sostanziali smentite della stessa da parte del professionista”.

Molti consumatori hanno incontrato difficoltà a mettersi in contatto col professionista, che ha ostacolato l’esercizio di diritti contrattuali ad esempio per quanto riguarda la restituzione del prezzo pagato per effetto dell’omessa consegna: il riferimento è, in primo luogo, alla mancata corresponsione del rimborso. C’è poi la contestazione di una ulteriore pratica commerciale, in quanto la disciplina sulla garanzia presente nelle Condizioni di vendita non è corretta e manca di trasparenza. Non si capisce, ad esempio, se le informazioni date siano riferite alla garanzia legale o ad una garanzia convenzionale. L’Antitrust rileva, fra l’altro, “l’ingannevolezza della frase che, senza distinguere tra garanzie convenzionali e garanzia legale di conformità, così recita: «per usufruire di queste garanzie estese, il cliente dovrà fare riferimento direttamente al produttore e ai suoi centri di assistenza diretti», così inducendo il consumatore a ritenere che anche per la garanzia di conformità sia necessario rivolgersi al produttore” e non, come invece accade, al venditore. Da qui la decisione di tre sanzioni per un totale di 100 mila euro.

 

Energia: firmato Protocollo Energetic Source-Consumatori

Piena tutela dei diritti dei clienti nel mercato energetico, impegno a prevenire ed evitare il fenomeno dei contratti non richiesti, semplificazione della gestione dei reclami scritti: sono i cardini sui quali si fonda il Protocollo di Autoregolazione Volontaria e di Gestione Reclami firmato dal gruppo Energetic Source, fra i principali operatori del mercato libero di energia e gas, e le principali associazioni dei consumatori. Il Protocollo fa seguito agli impegni sottoscritti nell’Accordo Quadro dello scorso giugno.

Come informa una nota, “obiettivo è quello di garantire la piena tutela dei diritti dei clienti nell’ambito del consumo energetico tramite uno stretto controllo della qualità dell’attività condotta dalle agenzie e partner di vendita con particolare attenzione a prevenire o evitare il fenomeno dei contratti e delle attivazioni non richieste di forniture di energia elettrica e gas naturale rafforzando quanto previsto dall’AEEG”. Allo stesso tempo, ci si impegna ad agevolare e semplificare la gestione dei reclami scritti dei clienti finali di Flyenergia, società del gruppo che si occupa del mercato retail, in merito a disservizi legati alla fornitura di energia elettrica e gas. A tale proposito, in concomitanza con la firma del Protocollo di Autoregolazione Volontaria, è stato sottoscritto anche il Protocollo per la Gestione di Reclami che regolamenta le modalità di classificazione e le tempistiche di risposta in caso di reclami legati a contratti e attivazioni non richieste. In base a questo Protocollo, il cittadino potrà contare sull’attivazione di un canale dedicato alle Associazioni dei Consumatori e di una riduzione dei tempi di risposta massima rispetto a quelli previsti dall’AEEG.

L’accordo prevede la condivisione con le agenzie e i partner di vendita del Codice di Condotta Commerciale e del Codice Etico del Gruppo Energetic Source e l’organizzazione di giornate di formazione, inaugurate il 20 febbraio scorso a Milano, per favorire la diffusione di un’informazione chiara e non fraintendibile verso il consumatore finale. È stato inoltre istituito un Osservatorio congiunto composto da 2 membri per il Gruppo Energetic Source e 4 membri per le Associazioni scelti tra le Associazioni firmatarie con criterio turnario.

Le associazioni firmatarie dell’accordo quadro sono: ACU, Adiconsum, ADOC, Adusbef, Assoconsum, AssoUtenti, Casa del Consumatore, Centro Tutela Consumatori e Utenti, Cittadinanzattiva, Codacons, Codici, Federconsumatori, Lega Consumatori, Movimento Consumatori, Movimento Difesa Cittadino, Movimento Difesa del Cittadino, Unione Nazionale Consumatori.

 

Intercity soppressi? Trenitalia smentisce (per ora)

Intercity soppressi da giugno? Trenitalia smentisce (ma neanche troppo). La società ha infatti comunicato che “ad oggi non è ancora prevista alcuna cancellazione a giugno dei 10 Intercity” finiti in un’interrogazione parlamentare i cui esiti hanno immediatamente sollevato la protesta dei consumatori. Allo stesso tempo, l’azienda conferma che i treni sono in perdita e che attenderà l’esito delle analisi del Ministero dei Trasporti.

Come si legge in una nota diramata nei giorni scorsi, “contrariamente a quanto diffuso dai media, per nessuno dei 10 Intercity “a mercato”, oggetto di un’interrogazione parlamentare, è stata programmata la cancellazione al cambio orario di giugno. Infatti, prima di intraprendere nuove iniziative in ordine ai suddetti treni, Trenitalia attenderà gli esiti delle analisi del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti – che verranno completate a breve – per valutare, successivamente, assieme alle Regioni interessate, le eventuali azioni conseguenti”.

Trenitalia precisa inoltre che “a differenza di tutti gli altri treni Intercity che rientrano nel Contratto di Servizio con lo Stato, per i quali la differenza tra costi di esercizio e ricavi da biglietti e abbonamenti è compensata da un apposito corrispettivo, i 10 Intercity in questione sono invece effettuati a mercato a totale carico di Trenitalia, che per questi treni ha registrato nel 2013 perdite per quasi 30 milioni di euro l’anno

 

 

 

Finti autovelox? Assicurazioneauto.it: autorità contrarie, cittadini favorevoli

Quella dei finti autovelox è questione controversa e dibattuta: si tratta di “dispositivi costituiti da contenitori vuoti in materiale prevalentemente plastico di varia foggia e colorazione che vengono posti a margine della strada con il dichiarato intento di condizionare la velocità dei veicoli”. Cosa ne pensano le autorità e qual è, invece, l’opinione dei cittadini? Se ne parla in un articolo sul sito assicurazioneauto.it.Il 19 marzo scorso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha scritto al presidente dell’Anci, Piero Fassino, dichiarando di essere contrario ai finti “dissuasori di velocità” adottati ormai in diversi Comuni come intervento di sicurezza stradale. I motivi per cui il Ministero è contrario sono: i finti autovelox “non sono inquadrabili in alcuna delle categorie di dispositivo o di segnaletica previste dal vigente Codice della Strada” quindi “non sono suscettibili né di omologazione né di approvazione o autorizzazione”; potrebbero inoltre essere un pericolo, “la loro eventuale dislocazione a bordo strada dovrebbe considerare la possibilità che tali manufatti possano costituire ostacolo fisso, ancorché posti al di fuori della carreggiata”. Tesi avvalorata in una riunione tenuta il 27 marzo da il Ministro dei Trasporti, Ministro dell’Interno e il Presidente dell’Anci in cui è emerso parere favorevole esclusivamente sui  dissuasori di velocità installati e operativi ma solo se dotati di effettivi dispositivi di controllo.

I cittadini, invece, sono favorevoli a questi dispositivi: secondo alcuni Sindaci intervistati, gli automobilisti, non sapendo se i contenitori nascondono o meno gli effettivi rilevatori di velocità, tendono a rallentare nelle loro vicinanze. E non esiste una normativa che proibisce ai Comuni di installare i finti autovelox nelle tratte più pericolose.

Confermano il risultato anche i Comandanti di Polizia Municipale che, a seguito del ricorso da parte di molti Comuni, hanno visto diminuire i casi di eccesso di velocità. I commerciali delle concessionarie hanno registrato l’opinione positiva dei loro clienti, i quali hanno ammesso che la sola vista del box condiziona la loro andatura spingendoli a rientrare subito nei limiti di velocità consentiti.

I finti autovelox, quindi, benchè non frutto di una regolamentazione ben precisa, hanno portato buoni risultati in termini di sicurezza stradale. Inoltre, non è esclusa la possibilità di caricarli con effettivi dispositivi di rilevazione della velocità omologati dal Ministero e in dotazione alle Forze di Polizia, con obbligo di segnaletica stradale come sancito dall’art. 142 comma 6-bis. L’ultima statistica ACI-CENSIS parla chiaro: su 38432 incidenti stradali in Italia, ben 25907 si sono verificati a causa dell’eccesso di velocità. Pertanto, è difficile pensare di abbandonare misure che hanno dimostrato la loro efficacia nell’immediato per attendere soluzioni più formali che chissà quando metteranno d’accordo le autorità competenti.

 

Vinitaly 2014, Coldiretti denuncia due falsi vini ‘made in Italy’

Ha aperto i battenti ieri l’edizione 2014 di Vinitaly, il salone dei vini e dei distillati che ogni anno, a Verona, chiama a raccolta un folto numero di espositori e di visitatori. L’iniziativa, oltre a celebrare le perfomarnces del vino italiano – l’Italia del vino è il primo esportatore del mondo con una quota del 21% del mercato internazionale – è anche l’occasione per fare il punto sulla contraffazione che colpisce anche il settore vini come ha denunciato Coldiretti nell’ambito dell’incontro “La legalità nel bicchiere, il piano d’azione” organizzato dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, dalla Coldiretti e dall’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare.

L’ultimo ‘ritrovato’ si chiama “Italian secco” e sull’etichetta è ben evidente la scritta in italiano “spumante secco” e il marchio “Gancia”, ma con una lente d’ingrandimento dietro la bottiglia si può leggere che è prodotto in Argentina. Il nome – denuncia l’Associazione – richiama il nostrano Prosecco, il vino nazionale che ha avuto il maggior incremento delle esportazioni, ma siamo di fronte a una bottiglia – denuncia la Coldiretti – che i consumatori identificano facilmente come italiana, ma che di italiano non ha niente perché le uve da cui proviene sono coltivate in Argentina, l’imbottigliamento avviene nel Paese sudamericano. Del resto lo scorso 7 agosto 2013 la Russian Standard, uno dei più grandi gruppi integrati produttori di liquori e vini, ha annunciato di aver aumentato al 94,1 per cento la sua quota di partecipazione in Gancia SpA, fondata nel 1850 da Carlo Gancia, creatore del primo spumante italiano Gancia e leader internazionale nella produzione di spumanti e vermouth.

Sul sito argentino www.gancia.com.ar nelle caratteristiche tecniche si legge che – riferisce la Coldiretti – “l’”Italian secco” è ottenuto dal 40 per cento viogner (40 per cento), chennin (25 per cento), chardonnay (25 per cento) e Ugni blanc (10 per cento) ed è uno spumante giallo verdastro che possiede un eccellente perlage, si annusano aromi da frutta come ananas, pesca e fiori di acacia, miele e lievito (pane appena sfornato)”.

Identica storia per “Fernet Mafiosi”, con tanto di gangster e pistola disegnati, che viene venduto in uno degli Stati europei dove la presenza degli italiani è maggiore, la Germania. Il nuovo esempio di prodotto che richiama una delle forme di criminalità organizzata più dolorose ed odiose per il nostro Paese.

Ma il “Fernet Mafiosi” non è l’unico esempio di prodotto alcolico che associa all’estero l’Italia alla mafia, ma c’è anche il vino Syrah “Il Padrino” prodotto nella Santa Maria Valley California da Paul Late “For those who dare to feel” (per quelli che osano sentirsi). Un business che coinvolge anche l’Italia dove a Corleone in Sicilia si imbottiglia il vino il “Padrino – Vito Corleone”, ma anche il liquore d’erbe “Don Corleone” a base di miscela d’erbe ed estratti naturali e con lo stesso nome si vende anche un limoncello, senza dimenticare l’amaro “Il Padrino” anch’esso nato da una antica ricetta corleonese per acchiappare qualche turista. Secondo una indagine Coldiretti/Ixe’ il 52 per cento degli italiani che si esprime non assaggerebbe mai una bottiglia di “Il Padrino” perchè la mafia è un grave danno all’immagine del Paese mentre il 38 per cento sorriderebbe ritenendolo un classico stereotipo dell’Italia.

 

Recupero crediti, Antitrust: stop a pratiche scorrette di GE.RI.

Ai consumatori arrivavano pressanti solleciti di pagamento di presunti crediti, talvolta con la minaccia di azioni legali e addirittura l’annuncio di una visita da parte di un funzionario, a casa o sul posto di lavoro, per tentare la composizione bonaria del debito. L’Antitrust è intervenuta a tutela dei consumatori bersagliati da solleciti di pagamento fatti in modo aggressivo e relativi a presunti crediti, infondati o prescritti, e ha disposto la sospensione da parte della GE.RI. Gestione Rischi S.r.l. e della ELLIOT S.r.l. di ogni attività diretta al recupero crediti con modalità scorrette.

“La misura è stata adottata per impedire da subito, in attesa della conclusione dell’istruttoria, effetti negativi per i cittadini”, spiega l’Antitrust, che si è mossa su numerose segnalazioni arrivate da cittadini, dal Gruppo Antitrust del Nucleo Tutela Mercati della Guardia di Finanza e dalle associazione dei consumatori. Secondo tali segnalazioni “la GE.RI., in particolare nei primi mesi del 2014, avrebbe sollecitato via posta, con mail, telefonate e sms, il pagamento – su incarico di diversi committenti – di presunti crediti, non dettagliati o infondati o prescritti, anche minacciando azioni legali. In alcune comunicazioni veniva addirittura preannunciata la visita di un funzionario a casa o sul posto di lavoro per “ritentare la composizione bonaria del debito” – spiega l’Antitrust – Taluni consumatori, inoltre, sono stati invitati a contattare una numerazione a pagamento, “per eventuali comunicazioni” o per delle “verifiche amministrative”, con un costo della chiamata alquanto elevato. La società, tuttavia, ha comunicato di aver attualmente disattivato la relativa numerazione”.

Secondo quanto appurato nella prima fase del procedimento, il recupero di alcuni crediti sarebbe stato commissionato dalla ELLIOT S.r.l., società che ha acquistato, a prezzi irrisori rispetto all’importo nominale, la titolarità, dal marzo 2013, di crediti vantati da altri professionisti. “Il provvedimento – aggiunge l’Antitrust – rientra in un settore di particolare attualità, in relazione al quale l’Autorità ha già adottato numerosi provvedimenti, irrogando sanzioni per oltre 600 mila euro, in particolar modo nei confronti di società di recupero crediti responsabili di pratiche aggressive per l’inoltro di finte citazione in giudizio”.

Una delle segnalazioni sulla GE.RI è arrivata proprio a febbraio, quando l’Unione Nazionale Consumatori ha segnalato che la società stava inviando richieste di recupero crediti aggressive per ottenere il pagamento di importi dei quali non si era neanche sicuri. Per l’UNC si prospettava anche una violazione della privacy nel momento in cui la stessa GE.RI. preannunciava la visita di un funzionario per “ritentare la composizione bonaria” del debito.

 

Arsenico nell’acqua, Medici per l’ambiente: interventi insufficienti nel Viterbese

L’arsenico nell’acqua continua a preoccupare. E gli interventi a tutela della salute delle popolazioni dell’Alto Lazio sono ancora inadeguati, incompleti e insufficienti, nonostante i solleciti continui fatti da medici ed esperti. Servono subito programmi di prevenzione, con screening gratuiti, relativi alle patologie correlate all’esposizione cronica all’arsenico e al fluoro e studi sullo stato di salute dei bambini. Il focus è sull’Alto Lazio e sul Viterbese e a chiedere nuovi interventi è l’Isde-Associazione italiana medici per l’ambiente, che da anni si batte per la tutela della salute nell’area.

Sono infatti passati due anni dalle drammatiche conclusioni dello studio  “Valutazione Epidemiologica degli effetti sulla salute in relazione alla contaminazione da Arsenico nelle acque potabili nelle popolazioni residenti nei comuni del Lazio, realizzato dal Dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale della Regione Lazio, ma c’è ancora molto da far per intervenire realmente a tutela della salute dei cittadini. L’indagine, che ha valutato gli effetti sulla salute delle popolazioni residenti nei 91 comuni del Lazio sottoposti negli ultimi 10 anni a regime di deroga per i livelli di arsenico, aveva messo in evidenza che esposizioni croniche a livelli elevati di arsenico portano a un’incidenza maggiore di una lunga serie di patologie, che vanno dai tumori alle malattie ischemiche del cuore, dall’ictus alle malattie dell’apparato respiratoria e all’ipertensione arteriosa. Fra le aree a rischio, molti comuni della provincia di Viterbo dove le dove le concentrazioni medie stimate di arsenico nel periodo 2005-2011 sono state superiori a 20μg/L, laddove già nel 2001 l’Europa ha fissato (con la direttiva 98/83/CE) per l’arsenico nell’acqua il valore limite di 10 microgrammi per litro.

Lo studio riportava una situazione estremamente preoccupante per l’Alto Lazio, ricorda anche oggi l’Isde:L’indagine evidenzia eccessi di incidenza e mortalità nei Comuni con livelli stimati per il periodo 2005-2010 per patologie associabili ad esposizione ad arsenico (tumori del polmone e della vescica, ipertensione, patologie ischemiche, patologie respiratorie, diabete)” . E nelle conclusioni si leggeva: “ I risultati indicano la necessità di un continuo monitoraggio dei livelli di contaminazione da As delle acque e  di interventi di sanità pubblica per assicurare il rispetto dei limiti previsti dalla legislazione attualmente  in vigore (direttiva 98/83/EC, As<10 μg/L)”.

Ebbene: a due anni di distanza dallo studio, che non è rimasto l’unico, l’Associazione italiana medici per l’ambiente di Viterbo “deve purtroppo continuare a denunciare l’inadeguatezza, l’incompletezza  e l’insufficienza di interventi  risolutivi a tutela della salute delle popolazioni dell’Alto Lazio – si legge in una nota – L’Isde di Viterbo  pertanto torna a chiedere che si avviino subito programmi di prevenzione, con screening gratuiti, relativi alle patologie correlate all’esposizione cronica all’arsenico e al fluoro ed evidenziate dal succitato lavoro di ricerca, studi  di tipo osservazionale dello stato di salute delle popolazioni e in particolare dello stato di salute dei bambini, anche per i noti effetti  tossici e cancerogeni dell’arsenico sullo sviluppo neurocerebrale fetale e pediatrico”.

L’associazione ribadisce la necessità di rispettare il diritto costituzionale alla salute e chiede di “realizzare interventi  efficaci e risolutivi per la completa dearsenificazione delle acque ad uso potabile e per l’avvio di una informazione corretta e diffusa rivolta a tutti i cittadini  delle aree interessate e in particolare per quelli residenti nei Comuni dell’Alto Lazio interessati da questa problematica, e  nelle scuole, negli ambulatori medici, nelle strutture militari e carcerarie”.

Privacy, CGUE: direttiva UE su conservazione dati è invalida

La direttiva europea sulla conservazione dei dati è invalida perché comporta un’ingerenza di vasta portata e particolare gravità (non limitata allo stretto necessario) in due diritti fondamentali: il rispetto della vita privata e la protezione dei dati di carattere personale. Lo afferma la Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella sentenza odierna che interviene nella causa tra le autorità irlandesi e austriache da una parte e alcune società di comunicazioni elettroniche dall’altra. 

La direttiva sulla conservazione dei dati ha per obiettivo l’armonizzazione delle disposizioni degli Stati membri sulla conservazione di determinati dati generati o trattati dai fornitori di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di una rete pubblica di comunicazione. Essa è quindi volta a garantire la disponibilità di tali dati a fini di indagine, accertamento e perseguimento di reati gravi,come quelli legati alla criminalità organizzata e al terrorismo. La direttiva dispone che i fornitori debbano conservare i dati relativi al traffico e all’ubicazione, nonché i dati connessi necessari per identificare l’abbonato o l’utente. La direttiva non autorizza, invece, la conservazione del contenuto della comunicazione e delle informazioni consultate.

Le Corti di Irlanda e Austria hanno chiesto alla Corte di giustizia di esaminare la validità della direttiva, alla luce di due diritti fondamentali garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ossia il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla protezione dei dati di carattere personale. In particolare la Corte austriaca è investita di vari ricorsi presentati da Governo del Land di Carinzia e da altri 11.128 ricorrenti che mirano ad ottenere l’annullamento della disposizione nazionale che attua la direttiva nel diritto austriaco.

Nella sua odierna sentenza, la Corte dichiara la direttiva invalida perché i dati da conservare consentono di sapere con quale persona e con quale mezzo un abbonato o un utente registrato ha comunicato, di determinare il momento della comunicazione nonché il luogo da cui ha avuto origine e di conoscere la frequenza delle comunicazioni dell’abbonato o dell’utente registrato con determinate persone in uno specifico periodo. Tali dati, considerati congiuntamente, possono fornire indicazioni assai precise sulla vita privata dei soggetti i cui dati sono conservati, come le abitudini quotidiane, i luoghi di soggiorno permanente o temporaneo, gli spostamenti giornalieri o di diversa frequenza, le attività svolte, le relazioni sociali e gli ambienti sociali frequentati.

La Corte ritiene che la direttiva, imponendo la conservazione di tali dati e consentendovi l’accesso alle autorità nazionali competenti, si ingerisca in modo particolarmente grave nei i diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere personale. Inoltre, il fatto che la conservazione ed il successivo utilizzo dei dati avvengano senza che l’abbonato o l’utente registrato ne siano informati può ingenerare negli interessati la sensazione che la loro vita privata sia oggetto di costante sorveglianza.

Questa ingerenza nei diritti fondamentali è giustificata? In parte sì perché non consente di prendere conoscenza del contenuto delle comunicazioni elettroniche in quanto tale e prevede che i fornitori di servizi o di reti rispettino determinati principi di protezione e di sicurezza dei dati. Inoltre, la conservazione dei dati ai fini della loro eventuale trasmissione alle autorità nazionali competenti risponde a un obiettivo di interesse generale, vale a dire la lotta alla criminalità grave nonché, in definitiva, la pubblica sicurezza.

Ma, secondo la Corte, il legislatore dell’UE, con l’adozione della direttiva sulla conservazione dei dati, ha ecceduto i limiti imposti dal rispetto del principio di proporzionalità: l’ingerenza vasta e particolarmente grave della direttiva nei diritti fondamentali in parola non è sufficientemente regolamentata in modo da essere effettivamente limitata allo stretto necessario.

La direttiva, infatti, si applica all’insieme degli individui, dei mezzi di comunicazione elettronica e dei dati relativi al traffico, senza che venga operata alcuna differenziazione, limitazione o eccezione in ragione dell’obiettivo della lotta contro i reati gravi. In secondo luogo, la direttiva non prevede alcun criterio oggettivo che consenta di garantire che le autorità nazionali competenti abbiano accesso ai dati e possano utilizzarli solamente per prevenire, accertare e perseguire penalmente reati che possano essere considerati, tenuto conto della portata e della gravità dell’ingerenza nei diritti fondamentali summenzionati, sufficientemente gravi da giustificare una simile ingerenza. Al contrario, la direttiva si limita a fare generico rinvio ai «reati gravi» definiti da ciascuno Stato membro nella propria legislazione nazionale. Inoltre, la direttiva non stabilisce i presupposti materiali e procedurali che consentono alle autorità nazionali competenti di avere accesso ai dati e di farne successivo uso. L’accesso ai dati, in particolare, non è subordinato al previo controllo di un giudice o di un ente amministrativo indipendente.

In terzo luogo, quanto alla durata della conservazione dei dati, la direttiva impone che essa non sia inferiore a 6 mesi, senza operare distinzioni tra le categorie di dati a seconda delle persone interessate o dell’eventuale utilità dei dati rispetto all’obiettivo perseguito. Inoltre, tale durata è compresa tra un minimo di sei ed un massimo di ventiquattro mesi, senza che la direttiva precisi i criteri oggettivi in base ai quali la durata della conservazione deve essere determinata, in modo da garantire la sua limitazione allo stretto necessario.

La Corte constata peraltro che la direttiva non prevede garanzie sufficienti ad assicurare una protezione efficace dei dati contro i rischi di abusi e contro qualsiasi accesso e utilizzo illeciti dei dati. Essa rileva, tra l’altro, che la direttiva autorizza i fornitori di servizi a tenere conto di considerazioni economiche in sede di determinazione del livello di sicurezza da applicare (in particolare per quanto riguarda i costi di attuazione delle misure di sicurezza) e non garantisce la distruzione irreversibile dei dati al termine della loro durata di conservazione.

La Corte censura, infine, il fatto che la direttiva non impone che i dati siano conservati sul territorio dell’Unione. La direttiva non garantisce, quindi, il pieno controllo da parte di un’autorità indipendente del rispetto delle esigenze di protezione e di sicurezza, come è invece espressamente richiesto dalla Carta. Orbene, un controllo siffatto, compiuto sulla base del diritto dell’Unione, costituisce un elemento essenziale del rispetto della protezione delle persone con riferimento al trattamento dei dati personali.

 

Carta American Express – PayBack: intervista ai protagonisti

Una carta di credito e una raccolta punti insieme per dare più valore alle spese quotidiane. È questa l’essenza del nuovo prodotto che American Express e PayBack (compagine multi- branded che attraverso gli acquisti fatti presso i partner associati attribuisce sconti e promozioni ai clienti possessori della carta) hanno congiuntamente lanciato sul mercato. Lo scopo è quello di catturare l’attenzione di donne e giovani, ossia quelle fasce di mercato che non costituiscono al momento il core business di American Express ma che contribuiscono ampiamente nel processo decisionale degli acquisti familiari.

Nonostante il carattere innovativo dell’iniziativa che permetterà ai clienti American Express-PayBack di poter godere dei vantaggi di entrambe le società, alcuni aspetti, di natura per così dire “culturale” potrebbero incidere sull’effettivo successo di popolo.

È noto infatti che agli italiani piaccia sentire il peso del denaro nelle tasche e nei portafogli e che, per contro si tende ad avere un pessimo rapporto con le carte di credito e la moneta elettronica. Abbiamo quindi chiesto a Melissa Peretti, Vice Presidente, Head of Marketing, Partnership&Small Business di American Express, e a Luca Leoni, Amministratore Delegato di PayBack Italia, di spiegarci meglio in che modo questo nuovo prodotto potrà collocarsi sul mercato.

“Fortunatamente, stiamo crescendo da questo punto di vista. Tutti i dati dicono che negli anni futuri gli italiani utilizzeranno sempre di più la carta di credito per effettuare delle spese. Tra l’altro questo diventerà un aspetto fondamentale per il nostro Paese perché consente di raggiungere altri obiettivi collaterali quali la lotta al “nero” e all’evasione e quindi far crescere il Pil. La carta PayBack- American Express sarà un valore nelle mani dei consumatori, quindi lo sforzo di pagare con la carta anzicchè con le tanto amate monetine sarà ripagato dal fatto di poter estrarre vantaggi ulteriori dalle spese quotidiane accumulando punti sulla carta loyalty PayBack che saranno trasformati in sconti o premi”.

Un altro aspetto che blocca l’ ”italiano medio“ nell’usare il denaro elettronico è la diffidenza e i costi da dover sostenere per il servizio offerto. “Dal lato cliente/consumatore”, spiega Melissa Peretti, “per ovviare al problema dei costi di una carta di credito, American Express PayBack è stata concepita come “gratuita”, nessuna quota annuale da pagare e, per maggiore chiarezza, non è concepito nessun costo per le transazioni eseguite. Dal lato commercianti, pagando il costo per l’accettazione della carta possono beneficiare della protezione delle frodi ed eliminare i rischi derivati dal contante e dalle truffe. Inoltre, essendo American Express un close loop, cioè contemporaneamente issue (diamo la carta nelle mani dei clienti) e acquiring (detentori del circuito presso cui viene strisciata la carta. Questo ci consente di dare ai merchant con cui lavoriamo tantissime informazioni analitiche sul comportamento dei clienti che consente ad esempio di fare delle offerte dedicate per fidelizzarli maggiormente”.

“Inoltre”, aggiunge Leoni, “i commercianti potranno trarre ulteriori vantaggi. La nostra rete di partner non è solo un circuito di accettazione. Sono 6 i soci fondatori dell’iniziativa (Carrefour, Alitalia, Carrefour Banca, Mediaset Premium, Esso, 3 Italia- n.d.r.) che finanziano l’accumulo dei punti e fidelizzano la propria base clienti dando punti per gli acquisti effettuati presso i punti vendita dei partner stessi. Altro vantaggio per i partner che entrano nel programma PayBack è la possibilità di dialogare con i clienti degli altri partner”. L’acquisizione di PayBack da parte di American Express è avvenuta nel 2010, nel pieno di una crisi economico-finanziaria che ha interessato ed interessa l’Europa come il resto del mondo. Viene quindi da chiedersi se questo elemento abbia inciso sulla decisione di portare avanti un’iniziativa di questo tipo.

Secondo il Vice Presidente Peretti, è stata un’acquisizione mondiale, la più grande di Amex al di fuori degli Stati Uniti e risponde ad obiettivi strategici più ampi rispetto agli anni di una congiuntura economica negativa: crescere nel mondo internazionale, in segmenti nuovi e generare nuove forme di revenue al di là dei servizi di pagamento. Poi, ovviamente si sposa anche ad un momento in cui la gente è più attenta a quello che è il valore delle spese di tutti i giorni e quindi, da un certo punto di vista, il lancio in Europa beneficia anche di questo”. “I risultati lo dimostrano”, conclude Leoni: “in due mesi 4 milioni di persone hanno pensato che avere una carta gratuita che dà valore alle spese sia un vantaggio per il budget familiare. In un periodo di boom economico, operazioni di questo tipo vanno invece ad agire sull’aspetto aspirazionale del consumatore”.

 Elena Leoparco

 

Contraffazione alimentare, Nac: tutti i sequestri del 2013

Aumentano i sequestri di etichette agroalimentari illegali : nel 2013 oltre 3,3 milioni di unità (634.000 nel 2012 + 431%) e i sequestri di prodotti irregolari pari a 9,7 mila tonnellate (7,1 mila nel 2012 + 34%). Lo rilevano i Nuclei Antifrodi Carabinieri (NAC) del Comando Carabinieri Politiche Agricole e Alimentari che hanno oggi reso noti i dati dei controlli nel corso dell’anno 2013. Un incremento quello delle etichette dovuto principalmente alla attività del Nac sempre più mirata al fenomeno della contraffazione. “Il dato relativo all’aumento dei sequestri e dei risultati può far considerare ai consumatori  che nel nostro Paese i controlli ci sono e gli strumenti di contrasto sono fra i più efficaci. Il nostro Reparto sta concentrando sempre di più l’attenzione sulle etichette e la tracciabilità dei prodotti”, ha detto a Help Consumatori il Comandante del Corpo, il Colonnello Maurizio Delli Santi. Solo nel 2013 i Nac hanno effettuato oltre 3.100 ispezioni lungo la filiera.

I prodotti maggiormente presi di mira dai falsari sono proprio quelli più legati alla tradizione e alla economia agroalimentare del nostro Paese: “Le nostre attività più significative hanno riguardato i settori vitivinicolo, oleario, ortofrutticolo, lattiero caseario e  zootecnico, e in generale anche i settori della trasformazione di paste alimentari, dei prodotti da forno”, ha aggiunto il Colonnello Delli Santi.

Altro comparto al centro del business dei contraffattori è quello degli agrofarmaci. Come ha spiegato a Help Consumatori Delli Santi “Una delle macro-frodi che ha richiamato l’attenzione internazionale è stata proprio quella sugli agrofarmaci contraffatti in un’indagine sviluppata in oltre 3 anni anche in vari Paesi dell’UE, fra cui Germania e Spagna. I Nac sono riusciti a disarticolare una pericolosa organizzazione criminale che era riuscita ad importare in Italia e a diffondere sul mercato ingenti quantitativi di agrofarmaci contraffatti o irregolari, con tutto ciò che ne conseguiva in termini di rischi per gli stessi agricoltori e per i consumatori finali. L’attività ha visto l’arresto dei 20 responsabili e la distruzione del prodotto illegale”.

E nel 2013 nascono nuove metodiche di contraffazione, come la vendita on line di kit di autoproduzione di prodotti falsamente Made In Italy. Ai navigatori della rete è stato possibile acquistare il cd “Wine-kit”, prodotti liofilizzati ottenuti con estratto di mosto posti in vendita in improbabili  kit di fai da te, etichettati con noti marchi di vini nazionali. Il circuito illegale è stato bloccato, grazie anche alla collaborazione dell’Interpol. Stessa sorte per il “Cheese kit”, commercializzato sempre via web in Nuova Zelanda, Australia e Canada. Si trattava di confezioni contenenti anche in questo caso kit di autoproduzione che pretendevano di replicare prodotti caseari tipici italiani, come la Mozzarella, l’Asiago, la Ricotta, etc., commercializzati anche sul web con accattivanti confezioni richiamanti l’italianità e l’originalità dei prodotti (ricorrente è il richiamo al tricolore e alla denominazione “ITALIAN CHEESE”).

Due fatti eclatanti che ci rimandano al problema più generale dell’”Italian sounding”: “In questo caso il fenomeno non può essere contrastato solo con azioni di polizia ma grazie a una politica di accordi commerciali che lo stesso Ministero delle politiche agricole sta perseguendo”, ha concluso Delli Santi.

A cura di Silvia Biasotto


Amministratori di condominio, Antitrust avvia istruttoria su tariffe minime

La fissazione di un tariffario minimo per gli amministratori di condominio può restringere la concorrenza del servizio? È quanto si chiede l’Autorità Antitrust che ha aperto un’istruttoria nei confronti di CONFIAC – Confederazione Italiana delle associazioni condominiali  – per “verificare se le norme di un codice etico e deontologico e di un tariffario minimo per amministratori professionisti di condominio possano restringere in maniera consistente la concorrenza nel settore dei servizi inerenti l’amministrazione di immobili condominiali”.

Secondo l’Autorità “il varo di un tariffario analitico potrebbe integrare gli estremi della fissazione orizzontale dei prezzi e quindi determinare una restrizione sensibile della concorrenza tra gli operatori del settore visto che la Confederazione riunisce il 75% delle associazioni italiane di categoria cui aderiscono i professionisti amministratori di condominio”. L’istruttoria è stata avviata sulla base della richiesta di autorizzazione del tariffario minimo presentata dalla stessa CONFIAC e si dovrà concludere entro il 31 dicembre.

L’Antitrust argomenta che l’effetto restrittivo della concorrenza non sembra limitato dal fatto che, sul sito internet della Confederazione, il tariffario sia presentato come “meramente orientativo”.Spiega l’Autorità: “Talune disposizioni del Codice infatti inducono a ritenere effettivamente vincolanti le indicazioni di prezzo in ragione di  un compiuto sistema sanzionatorio che si attiva nel caso di mancato rispetto delle disposizioni di cui il tariffario è parte integrante. Infatti la natura anticoncorrenziale delle intese aventi ad oggetto tariffari minimi deve ritenersi esistente indipendentemente dal carattere vincolante o meno delle indicazioni di prezzo ivi contenute, in quanto queste ultime sono comunque suscettibili di svolgere unafunzione di orientamento del comportamento degli operatori e di  determinare, conseguentemente, un’artificiale omogeneizzazione delle condizioni di mercato. Il Codice inoltre – conclude l’Antitrust – presenterebbe un ulteriore elemento idoneo a restringere le normali dinamiche concorrenziali. Infattil’associato, destinatario di una richiesta di offerta per amministrare uno stabile, deve informare il collega in carica della sua intenzione di candidarsi se quest’ultimo sia aderente a CONFIAC”.

Polizze assicurative, 55 banche aderiscono al Protocollo

Più trasparenza; maggiore consapevolezza del consumatore sulle caratteristiche delle diverse tipologie di servizi e prodotti offerti da banche e intermediari finanziari; accesso più agevole ad opportune coperture assicurative per mutui e credito al consumo. Questi gli obiettivi del Protocollo d’intesa sulla correttezza e trasparenza nel collocamento delle polizze assicurative tra Abi, Assofin e alcune Associazioni dei Consumatori che entra nel vivo in questi giorni con l’adesione di 55 tra banche ed intermediari finanziari.Nello specifico, tra gli impegni cui saranno chiamate banche e/o intermediari finanziari aderenti all’iniziativa, con riferimento alle polizze oggetto del Protocollo:

-      L’evidenziazione nella documentazione precontrattuale che la polizza è facoltativa e non necessaria per l’ottenimento del credito;

-      L’esposizione del costo complessivo del finanziamento con e senza la polizza – oltre al Taeg, già obbligatoriamente riportato nella documentazione precontrattuale, previsto anche un altro indicatore del costo totale del credito, calcolato con le stesse modalità del Taeg includendo le polizze assicurative facoltative;

-      La definizione di accordi con le imprese assicurative per l’estensione del diritto di recesso dalle polizze assicurative facoltative e le relative comunicazioni alla clientela – tenendo sempre come riferimento le esigenze del cliente, sia per quanto concerne i diritti e qualità del servizio sia per quel che attiene le condizioni economiche, banche e società finanziarie che aderiscono al Protocollo definiscono accordi con l’impresa (o con le imprese) di assicurazione con la quale si hanno rapporti commerciali per la promozione e il collocamento di polizze assicurative facoltative accessorie ai finanziamenti.

Questi accordi servono a riconoscere a favore del consumatore un periodo di 60 giorni dalla data di sottoscrizione del contratto assicurativo – ovvero, se successiva, dalla data di efficacia – per recedere liberamente dal contratto mantenendo in essere il finanziamento. In questo senso, dopo il perfezionamento del contratto, verrà inviata a ciascun cliente una “lettera di benvenuto” con le principali informazioni sulle coperture previste dalla polizza e i tempi e le modalità per l’eventuale esercizio del recesso.

Tra le Parti, come previsto dall’Intesa, sarà a breve istituito un Osservatorio congiunto che si occuperà di analizzare la tematica delle polizze accessorie ai finanziamenti, rilevare i risultati di indagini su reclami o ricorsi, condividere e proporre eventuali iniziative per migliorare sempre più l’informazione alla clientela, e ottimizzare i livelli di efficienza e la trasparenza del mercato delle polizze assicurative.

Le associazioni dei consumatori firmatarie del Protocollo sono: Acu, Adiconsum, Adoc, Assoutenti, Casa del Consumatore, Cittadinanzattiva, Codacons, Codici, Confconsumatori, Federconsumatori, Lega Consumatori, Movimento Consumatori, Movimento Difesa del Cittadino, Unione Nazionale dei Consumatori.

 

Ferrovie e diritti dei passeggeri, Europa deferisce Italia a Corte di Giustizia

L’Italia non garantisce i diritti dei passeggeri che viaggiano in treno. Non c’è ancora un’autorità pienamente operativa che applichi quanto previsto dalle norme europee sui diritti dei passeggeri e non ci sono sanzioni efficaci e dissuasive. Insomma: “I passeggeri che viaggiano in treno in Italia o verso altri paesi dell’UE non possono far rispettare i loro diritti in caso di problemi”. È la sonora bocciatura che arriva dalla Commissione europea, che ha deferito l’Italia alla Corte di giustizia per il mancato recepimento della normativa sui diritti del passeggeri nel trasporto ferroviario.

Denuncia la Commissione europea: “L’Italia non ha ancora istituito un organismo ufficiale e autorizzato a vigilare sulla corretta applicazione del regolamento sul suo territorio, né ha stabilito norme volte a sanzionare le violazioni della legislazione pertinente. Senza queste due azioni necessarie, i passeggeri che viaggiano in treno in Italia o verso altri paesi dell’UE non possono far rispettare i loro diritti in caso di problemi”.

La norma in questione è il regolamento (CE) n. 1371/2007 relativo ai diritti dei passeggeri nel trasporto ferroviario: questo stabilisce diversi obblighi giuridicamente vincolanti per gli Stati membri, che dovevano applicarli pienamente entro il 3 dicembre 2009. Il regolamento tutela i passeggeri che viaggiano in treno nell’UE mediante l’applicazione di una serie di diritti di base, quali il diritto a parità di accesso al trasporto, e in particolare la protezione da discriminazioni basate su nazionalità, residenza o disabilità; il diritto all’assistenza, senza costi aggiuntivi, per i passeggeri con disabilità o a mobilità ridotta; il diritto di avere informazioni prima della partenza (per es. sul prezzo del biglietto) e nelle varie fasi del viaggio (per es. ritardi, coincidenze); il diritto al rimborso del prezzo del biglietto in caso di soppressione o ritardi prolungati; il diritto a un servizio di trasporto alternativo (itinerario alternativo) o a una nuova prenotazione, a seconda delle preferenze del passeggero, in caso di ritardi prolungati o soppressione del servizio; il diritto a un livello minimo di assistenza nelle stazioni e a bordo dei treni in attesa dell’inizio o del proseguimento di un servizio in ritardo e il diritto a un rimborso in caso di ritardo prolungato o di soppressione del servizio, a determinate condizioni.

L’Italia non ha concesso deroghe all’applicazione del regolamento – gli Stati potevano decidere di adottare periodi transitori o applicare deroghe per determinati tipi di servizi, fra cui quelli urbani, suburbani e regionali – dunque i diritti dei passeggeri si applicano integralmente a tutti i servizi, nazionali e internazionali. “È quindi tanto più importante per i passeggeri che incontrano problemi durante il viaggio poter presentare reclami a un’autorità di riferimento, dotata di tutte le competenze necessarie per assicurare l’applicazione e l’esecuzione del regolamento – spiega la Commissione europea – Inoltre, tenuto conto dell’assenza di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive in caso di violazioni del regolamento, l’industria ferroviaria non ha incentivi a rispettare gli obblighi. Attualmente, l’Italia ha istituito un organo temporaneo che non ha né la competenza né l’autorità per applicare pienamente le norme dell’UE in materia di diritti dei passeggeri”.

La regolamentazione italiana non è ancora conforme alla normativa europea nonostante la Commissione abbia inviato una lettera di costituzione in mora nel giugno 2013, seguito da un parere motivato a novembre 2013. L’azione di oggi persegue l’obiettivo della Commissione di assicurare che gli Stati membri si conformino pienamente alle norme in materia di diritti dei passeggeri.

Sostiene il Vicepresidente della Commissione Siim Kallas, responsabile per i Trasporti: “La protezione dei passeggeri che viaggiano in Europa è una delle pietre miliari della politica dei trasporti europea. Tutti gli Stati membri dell’UE devono garantire la messa in atto di strutture cui i passeggeri possano rivolgersi per far rispettare i loro diritti e sanzionare le violazioni. Così si garantisce anche un clima di concorrenza equa per il settore ferroviario in tutta l’UE”.

 

Diritti dei consumatori, cosa cambia dal 14 giugno?

Il 14 giugno sarà una data importante per i consumatori italiani: entrerà finalmente in vigore la direttiva europea 83/2011 sui diritti dei consumatori recepita dal decreto legislativo n.21 del 21 febbraio 2014. Cosa cambierà? I consumatori avrannno informazioni più chiare prima di concludere un contratto; invece che 10 giorni di tempo ne avranno 14 per esercitare il diritto di recesso; in caso di servizi non richiesti, potranno non pagare per la prestazione. Il tema è stato al centro di un convegno organizzato oggi a Roma, a Palazzo Giustiziani, dall’Antitrust. Dal 14 giugno i consumatori avranno maggiori informazioni precontrattuali. Prima di concludere un contratto, quindi, godrànno di una maggiore trasparenza su diversi aspetti quali la garanzia legale, il prezzo e l’oggetto del contratto, il diritto di recesso (che passa dagli attuali 10 giorni a 14). Previste anche più garanzie sul consenso all’acquisto: nei contratti conclusi al telefono, ad esempio, il consumatore sarà vincolato solo dopo aver firmato l’offerta e dopo averla accettata per iscritto. Gli sarà poi fornito un modello standard per l’esercizio del diritto di recesso che sarà valido in tutti i Paesi europei; ma sarà valida qualsiasi altra forma di espressione della volontà di recedere.

L’ambito che più godrà di un aumento di tutele è quello dei contratti a distanza come le vendite online o via telefono o con qualsiasi mezzo di comunicazione che non prevede la presenza fisica e simultanea delle parti, e quelli negoziati al di fuori dei locali commerciali (vendite a porta a porta o a domicilio, ovvero in un luogo diverso dai locali del professionista, ma alla presenza fisica e simultanea delle parti.

Un’altra importante novità a tutela del consumatore è il fatto che, in caso di servizi o beni non richiesti, l’utente potrà non pagare la prestazione. “La norma che è stata introdotta con il decreto legislativo di recepimento della direttiva consente all’Antitrust di intervenire contro i contratti non richiesti – ha spiegato il Presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella – Mentre negli ultimi due anni c’era stata una situazione di incertezza che lo aveva escluso. Ora l’Antitrust potrà intervenire, sempre nel rispetto delle regole stabilite dalle altre Autorità di regolazione con cui noi lavoriamo in stretta sintonia.

“Questa direttiva rafforzerà i livelli di tutela del consumatore anche in settori che fin’ora non erano coperti come quello dell’e-commerce – ha detto ancora Pitruzzella – Ma molte delle norme introdotte dalla direttiva non fanno altro che formalizzare alcune pratiche già messe in atto dall’Antitrust e qui faccio l’esempio delle sanzioni milionarie inflitte ad alcune compagnie aeree low cost per non aver indicato in modo trasparente il prezzo completo al momento dell’acquisto del biglietto sui relativi siti di vendita”.

La direttiva affida in via esclusiva all’Antitrust la competenza in materia di pratiche commerciali scorrette anche nei settori regolati; sui provvedimenti l’Antitrust dovrà acquisire il parere delle altre Autorità di regolazione competenti. “La direttiva rafforza i nostri poteri, in quanto noi già agiamo contro le pratiche commerciali scorrette ed aggressive – spiega Pitruzzella – Ribadisco che la direttiva rafforza gli obblighi di informazione che devono essere dati al consumatore affinché non sia ingannato e possa fare una scelta consapevole”.

Il Presidente dell’Antitrust ha ricordato che “il mercato è fonte di crescita e di benessere se vengono rispettate le regole e tutelati i consumatori che dovrebbero essere messi sul trono perché sono i sovrani del mercato”. “Purtroppo in momenti di crisi abbiamo tante pratiche che aggrediscono i consumatori. Quando il consumatore capisce di essere stato vittima di una pratica aggressiva o poco trasparente da parte dell’azienda, può rivolgersi direttamente all’Antitrust con un esposto, oppure può rivolgersi alle Associazioni dei consumatori. Questa direttiva è anche importante perché risolve tutta una serie di difficoltà interpretative che davano luogo a contenziosi da parte dell’impresa che rivolgendosi al Tar poteva far annullare la propria sanzione. Ora il quadro legislativo è chiaro ed avremo più forza per farlo. Certamente avremo bisogno della collaborazione delle Associazioni dei consumatori”.

Pitruzzella ha infine appoggiato la proposta lanciata dal Presidente del Senato Pietro Grasso, che ha aperto il convegno, di istituire un osservatorio unico e centralizzato dove arrivino tutte le segnalazioni dei consumatori. Una sorta di punto di monitoraggio costante del mercato.

Il Presidente Grasso ha ricordato che, durante la sua precedente attività di magistrato, si è occupato diverse volte di contraffazione agroalimentare, dal caso del pomodoro di San Marzano prodotto in Cina al Parmesan che sfrutta la popolarità di un prodotto d’eccellenza italiano. In entrambi i casi il consumatore è stato ingannato da soggetti criminali. “Per fortuna dopo anni di battaglie, è stata approvata una norma che ha inserito il reato di criminalità organizzata nel settore agroalimentare – ha ricordato Grasso – Voglio ricordare che quella italiana è una legislazione all’avanguardia, ma che il consumatore può e deve fare la sua parte consumando in modo critico”. Il Presidente del Senato ha ricordato l’esempio dell’iniziativa Addio Pizzo che a Palermo combatte contro chi chiede il pizzo proprio attraverso il consumo critico.

“I consumatori italiani, dopo il recepimento della direttiva e l’indicazione appunto dell’Antitrust come soggetto cui rivolgersi, hanno un quadro di regole e tutele più chiaro nel quale difendere il diritto a scelte di consumo trasparenti, sicure e consapevoli – ha detto la Vicepresidente del Senato Valeria Fedeli -  In questo modo si lavora per aumentare la fiducia nel mercato e nelle imprese, riconoscendo la funzione dei consumatori per le prospettive di crescita e di occupazione, anche in relazione a scelte strategiche di sviluppo fondate su innovazione, qualità e sostenibilità. Il concetto di scelta consapevole è ancora più importante in questo momento di crisi e il rapporto tra tutela della concorrenza e tutela dei consumatori deve essere parte integrante delle politiche di sviluppo e di crescita nazionale ed europea, e parte integrante di una più generale politica di apertura dei mercati che interpreta la globalizzazione come processo che offre straordinarie opportunità quando basato su regole, reciprocità, trasparenza”.

Multe strisce blu: decidono Comuni con “previsione specifica”

Multe sulle strisce blu: l’ultima decisione è dei Comuni ma per irrogare una sanzione serve una “specifica previsione”. È l’accordo raggiunto ieri fra il Governo e l’Associazione nazionale comuni sulla querelle nata intorno al caso delle multe fatte nei confronti di chi “sfora” sull’orario del ticket pagato per sostare nelle aree a pagamento: “Per le zone a strisce blu, laddove la sosta si protragga oltre il termine per il quale si è pagato, la sanzione pecuniaria potrà essere irrogata solo in presenza di una specifica previsione del Comune”.

Questo quanto si legge in una nota del Ministero dei Trasporti, dopo l’incontro fra il ministro Angelino Alfano, il ministro Maurizio Lupi e il presidente dell’Anci Piero Fassino, assistiti dai rispettivi collaboratori. “Si è convenuto – si legge in una nota del Ministero dei Trasporti – che la regolamentazione della sosta è competenza dei Comuni che ne definiscono le modalità con proprio atto deliberativo. Per le zone a strisce blu, laddove la sosta si protragga oltre il temine per il quale si è pagato, la sanzione pecuniaria potrà essere irrogata solo in presenza di specifica previsione del Comune. Quanto ai dissuasori di velocità – comunemente definiti autovelobox – appare evidente che possano essere installati e operativi soltanto dissuasori dotati di effettivi dispositivi di controllo”.

Soddisfazione viene dai Comuni. “L’incontro che abbiamo avuto questa sera con i ministri Alfano e Lupi ha consentito di riconoscere che il tema della sosta è una competenza dei comuni, che ne regolano le modalità e le sanzioni sulla base di propri atti deliberativi. Un risultato che fa chiarezza e consente ai Comuni di operare nella chiarezza ed esercitando i propri poteri’”. Queste le parole di Piero Fassino, presidente Anci, che ha espresso “soddisfazione per una conclusione che fuga qualsiasi ombra sulla legittimità e sulla correttezza dei Comuni”.

Particolarmente critico nei confronti dell’esito della vicenda è il commento dell’Aduc, che denuncia in sostanza come il Ministero dei Trasporti si sia arresto alla “lobby dei Comuni”. Scrive in una nota l’associazione: “La vicenda delle multe per la sosta nelle strisce blu, comminate perché prolungata oltre il tempo per cui l’automobilista ha pagato il ticket, ha finalmente un punto fermo. Ma con un “prezzo” e un metodo che fa onore all’Italia degli stenti: il ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi, lo ha messo con un “obbedisco” all’Associazione nazionale dei Comuni d’Italia (Anci), guidata dal Sindaco di Torino Piero Fassino, cioè i Comuni possono prevedere che, oltre al corrispettivo e la penale per il tempo di sosta sforato, sia comminata una sanzione pecuniaria non per violazione del codice della strada ma per violazione di una delibera comunale”. In precedenza era invece stato detto che non si doveva parlare di multa ma, prosegue l’Aduc, “insisti da una parte, insisti dall’altra, quella che chiamiamo per semplificare “la lobby dei Comuni che fanno soldi facendo cassa sulla sicurezza degli amministrati”, alla fine ce l’ha fatta. Il ministro, per non perdere la faccia, ha tenuto a precisare che le sanzioni pecuniarie saranno fattibili solo da quei Comuni che avranno approvato specifiche delibere in merito… vorremmo conoscere quel Comune che non lo farà …., ma tant’é, per il ministro basta evocare il rigore delle norme… e tutto funziona. In materia noi abbiamo sempre avuto dubbi sulle posizioni “originarie” e anti-multa del ministro Lupi, ma questo poco conta di fronte allo scempio a cui abbiamo assistito con questo “obbedisco” del ministro Lupi”.

L’accordo fra Ministero e Comuni, con questi ultimi che potranno elevare sanzioni solo dopo specifica previsione nei regolamenti comunali, è per l’ Adoc l’ennesimo “pasticcio all’italiana” che penalizza esclusivamente i consumatori. “Restiamo profondamente convinti che sia più giusto e equo far pagare solo l’integrazione al cittadino e non sanzionarlo per il ritardo – dichiara Lamberto Santini, presidente dell’Adoc – piuttosto, invece di cercare un compromesso “all’italiana”, sarebbe stato opportuno individuare soluzioni, anche utilizzando le più recenti tecnologie compresi gli smartphone, che avrebbero permesso ai cittadini di pagare correttamente il tempo di sosta effettivo e reale. Così invece a rimetterci sono, come al solito, i cittadini”.

 

CGUE: decade da interessi il creditore che non verifica solvibilità del debitore

Dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea un’importante sentenza sul credito al consumo: è compatibile con il diritto comunitario una legge nazionale che prevede la decadenza degli interessi se il creditore non  verifica la solvibilità del debitore prima di concludere il contratto di prestito.

La Corte di Giustizia ricorda che, conformemente alla direttiva 2008/48 sui contratti di credito al consumo, per una tutela effettiva dei consumatori contro qualsiasi concessione irresponsabile di contratti di credito, il creditore è tenuto, prima di ogni rapporto contrattuale, a verificare la solvibilità del debitore ed è compito degli Stati membri prevedere misure efficaci, proporzionate e dissuasive per sanzionare ogni inadempimento di tale obbligo.

La normativa francese prevede che un creditore che non abbia correttamente verificato la solvibilità del debitore, non possa più fare valere gli interessi convenzionali, (restano dovuti gli interessi al tasso legale). La Corte interviene nella causa tra un consumatore che nel 2011 ha stipulato con Le Crédit Lyonnais (LCL) un contratto di credito al consumo di 38.000 euro, con interessi convenzionali ad un tasso annuo fisso del 5,60%.Vista l’incapacità del signore di rimborsare tale prestito, LCL ha portato il consumatore dinanzi al tribunale che però ha rilevato che LCL non ha correttamente verificato la solvibilità del cliente e, in base alla normativa francese, non può pretendere gli interessi convenzionali.

La Corte di giustizia ricorda che, conformemente alla direttiva 2008/48, ai fini di una tutela effettiva dei consumatori contro qualsiasi concessione irresponsabile di contratti di credito, il creditore è tenuto, prima di ogni rapporto contrattuale, a verificare la solvibilità del debitore ed è compito degli Stati membri prevedere misure efficaci, proporzionate e dissuasive per sanzionare ogni inadempimento di tale obbligo.

 

Banche, Altroconsumo: Sepa non è motivo per aumentare commissioni

Non c’è nessuna disposizione che obbliga le banche a far pagare una commissione per gli addebiti diretti Sepa, il nuovo sistema di pagamento europeo che, come spiega la Banca d’Italia, “mira ad estendere il processo d’integrazione europea ai pagamenti al dettaglio in euro effettuati con strumenti diversi dal contante, con l’obiettivo di favorire l’efficienza e la concorrenza all’interno dell’area dell’euro”.

“Dopo il passaggio alla moneta unica nel 2002, la Sepa – spiega Bankitalia –  intende offrire ai cittadini europei la possibilità di effettuare pagamenti a favore di beneficiari situati in qualsiasi paese dell’area dell’euro, utilizzando un singolo conto bancario e un insieme di strumenti di pagamento armonizzati. Nell’ottica Sepa, tutti i pagamenti al dettaglio in euro sono considerati “domestici”, venendo meno la distinzione fra pagamenti nazionali e transfrontalieri all’interno dell’area dell’euro”. Ora, come già denunciato qualche giorno fa dall’Unione Nazionale Consumatori, accade che alcune banche stiano addebitando ai consumatori costi non dovuti. Lo conferma anche l’odierna denuncia di Altroconsumo: “Ci sono arrivate segnalazioni e richieste di chiarimenti da parte di correntisti che si sono visti addebitare una nuova commissione per il pagamento di bollette e fatture con addebito sul proprio conto. Ciò che ci lascia perplessi sono le motivazioni che queste banche hanno dato ai loro clienti: la colpa, secondo alcuni istituti, sarebbe dell’arrivo del Sepa, il sistema unico di pagamento europeo per bonifici e addebiti diretti, entrato in vigore lo scorso 1° febbraio”.

Non c’è però alcuna disposizione europea che obblighi le banche a far pagare una commissione per gli addebiti Sepa: il muovo sistema, anzi, “dovrebbe rendere più efficienti i sistemi di pagamento e dunque rendere addirittura meno costosa per la banca l’esecuzione delle operazioni”, spiega Altroconsumo.

In realtà la banca ha la facoltà di variare le condizioni di un conto corrente ma deve darne comunicazione al correntista e fornire un “giustificato motivo”, ricorda l’associazione: “Qualsiasi variazione unilaterale (ovvero senza un accordo con il cliente) delle condizioni è valida solo se la banca ha seguito una ben determinata procedura (quella prevista dall’articolo 118 del TUB): la banca deve inviare una comunicazione online o cartacea personale con un preavviso di almeno 60 giorni rispetto alla variazione; a questo punto si deve avere la possibilità di chiudere il conto senza spese e alle vecchie condizioni. Se la banca non ha seguito questa procedura la variazione non è valida e quindi si può contestare”.

La contestazione si può fare anche se manca il “giustificato motivo” per l’introduzione della nuova commissione.Di certo affermare che la nuova spesa è dovuta al Sepa, ovvero a una nuova disposizione di legge che ha lo scopo di rendere più efficienti e quindi meno costosi i pagamenti, non può essere considerato un “giustificato motivo”, spiega Altroconsumo, che consiglia di verificare le comunicazioni ricevute dalla banca negli ultimi mesi: se manca il preavviso di 60 giorni, o il giustificato motivo per la variazione, si può fare un reclamo alla banca stessa che deve rispondere entro 30 giorni. Se non lo fa o arriva una risposta negativa, si può fare ricorso all’Arbitro bancario e finanziario.